domenica 13 dicembre 2015



CONOSCERE PER FOTOGRAFARE
Una riflessione personale, nel pensiero della fotografia.        



                  Chiederti cosa è la fotografia sembra una domanda ormai superata, quasi del paleolitico, quasi a sembrare una domanda che ha già trovato una risposta anche ( e per colpa, se posso azzardare) grazie all’uso del nuovo digitale,  che ha ormai superato di parecchio quello analogico. Eppure non è scontato che oggi, tu ed io  non sappiamo dare una risposta ben precisa. Perché, semmai, c’è forse una definizione esatta di fotografia?

                  Mi viene spontaneo quasi porgermi numerose domande, che se potessi non mi fermerei più. Del tipo, qual è la verità del “concetto di fotografia”?
                  La risposta, personalmente è chiara.
                  Io e tu la pensiamo e viviamo diversamente fino a definire la mia e la tua fotografia una memoria con una propria identità. Legata alle nostre memorie personali.
                  Se oggi noi utilizziamo, con piacere, il termine “fotografia” lo dobbiamo a Herschel, che si dilettava di filologia[1]. La sua scoperta andava a sostituire l’espressione di “ disegno fotografico”.  Per coniarlo, innanzitutto doveva nascere la tecnica, doveva esistere, dopo quattro mila anni, l’uomo sentì il dovere di avviare, non a caso di pari passo con il processo dell’industrializzazione,  all’impressione dell’immagine, una tecnica chimica nota come iposolfito di sodio, o iposolfito comunemente definito dai fotografi. 
Tutto ciò lo dobbiamo ai padri della fotografia, tanto per citarne i più importanti: Niepce, Daguerre,  Talbot.  
                  Ma questo non è un corso di fotografia, né siamo qui a fare concetti teorici  troppo complessi.
                 
                  Il solo termine  “fotografia” che non è soltanto scrittura di luce, per me e per te rappresenta e diventa qualcosa di magico, di misterioso, perché non solo fermiamo il tempo, lo impressioniamo, ma diamo il senso al senso della fotografia. Noi diventiamo, sensibili, come la pellicola è sensibile all’esposizione della luce, io e te diventiamo sensibili a ciò che vogliamo raccontare. Il terzo io che si fa pensiero e si materializza, per trasmettere una propria identità che diventa memoria e racconto.

                  Noi siamo abituati a definire per causa dell’effetto che provoca in noi  la fotografia. Scattata la foto, per intenderci, io e te viviamo l’esperienza dell’effetto che essa produce. E sono svariati i sentimenti.
                  Questa è la fotografia che viene definita dai nostri sentimenti. 
                  La definizione è nel nostro concetto di vita.
                  La foto è memoria, identità di un vissuto nella quale noi scriviamo un racconto.
                  La foto è anche pensiero. Il pensiero che si esprime in uno sguardo e l’agire è la conseguenza che provoca lo scatto, ovvero ciò che noi impressioniamo con il nostro sensibile oltre ad essere accompagnati dal sensibile del digitale.

                  Ti sei mai chiesto invece, perché ho scattato una fotografia?  Riconosco il fatto che prima di me, molti hanno realizzato scatti. E ancora prima, un secolo fa, nascevano i primi scatti, realizzati da scienziati, studiosi, appassionati. Qual è il senso che voglio ricavare dall’azione che sto compiendo? La mia fotografia cosa è? E ancora, cosa distingue me da un artista? Non siamo tutti artisti, forse? Mi viene l’istinto di catturare un istante, perché? Mi rendo conto che la mia è un’arte nata da qualche secolo? E cosa ne sarà del futuro? Quale nuova esperienza, da quello che prima era analogico adesso è digitale e dopo? Sarà possibile entrare dentro la fotografia? Potrei continuare a farti domande, ma io e te ci rendiamo conto che è difficile rispondere, ma quello che io e te ci domandiamo è se serve fare queste riflessioni.

                  Dal mio punto di vista, oggi abbiamo smesso di pensare e smettere di pensare provoca lo spegnimento della fantasia, del raccontare, del vivere l’immaginazione e produrlo. Siamo pieni di immagini (Lezione di fotografia, Luigi Ghirri, ti consiglio di leggerlo) quante immagini oggi ci circondano? E la televisione?
                  Ecco qui è il punto, riuscire ad utilizzare il pensiero per non essere invasi dal mondo che ci circonda. Proviamo ad essere anticonformisti, proviamo prima a scrivere, a raccontarci e dopo a realizzare scatti. Raccontiamo. Usiamo i nostri sensi, usciamo dalla gabbia del mercato che opprime la nostra facoltà di essere liberi. La tecnica della fotografia, mi chiederai, allora non serve a niente? La tecnica, ti rispondo, è superflua, diventa un muro quando non riesci ad esprimere il senso di quello che hai scattato.  

                  Ad esempio, ieri ho fatto uno scatto,  ho osservato il tavolo della mia cucina e mi sono soffermato su un dettaglio; l’angolo. Se allo scatto io non ho scritto, non ho comunicato, la foto è nulla. Rimane un immagine. Rimane soltanto uno scatto meraviglioso o decisamente brutto.
                  Ma io e te sappiamo che non basta limitarci a dire soltanto bella o brutta. Ma coglierne il senso. Quell’angolo ombroso di quel tavolo bianco con un primo piano e uno sfocato in secondo piano rappresenta la mia identità, l’angolo della mia vita.
                  Allora tu, penserai e cercherai di metterci del tuo. Ecco il percorso che intenderemo fare insieme. Fermarci, scoprire, va bene la tecnica, ma cogliamone il sensibile che è in noi.
                  Chiedi la differenza tra un artista e me. Siamo tutti artisti. Solo se non daremo al senso il senso rimarrà soltanto uno scatto. Oggi è una bella giornata, fotografo il paesaggio.  Perché l’ho fatto? Perché chi lo vede possa meravigliarsi. Non solo, ho voluto comunicare: bellezza, colore, sentimento.
Se ho fatto una foto ferma, ho messo il cavalletto, mi sono dedicato ad una buona composizione, ho appena comunicato tranquillità, pace. Ma se la stessa foto la faccio movimentata con dei tempi diversi allora il concetto cambia. Forse parlerò di irrequietezza, di mancanza di affetto.
                 
                  Non ci rendiamo conto ma la fotografia è come un libro, racconta senza che noi ci rendiamo conto, ma io e te impareremo a controllare la nostra sensibilità. Insieme sapremo raccontare.  Ecco in sintesi l’incontro di oggi, conoscere per raccontare, per fotografare. Abituiamoci a pensare, così potremo nel frattempo comprendere anche il senso della riflessione e abituarci a raccontare con la nostra sensibilità la scrittura delle emozioni.
                 
                  Per concludere, ci imbatteremo in un percorso “particolare” per l’uso che ne faremo. Parleremo di digitale, parleremo con gli smartphone. Non si tratta di sminuire “la Reflex” ma si tratta di prendere in esame un percorso sperimentale, nozioni di fotografia saranno la base, ma il percorso è del tutto sperimentale. Agire, pensare, modellare, materializzare il nostro pensiero. Lo faremo, scoprendo il nostro territorio, andremo a rivisitare i luoghi, le tradizioni. Tracceremo un percorso culturale fotografico. Lo smartphone è il pretesto, l’idea è il resto, permettetemi questa semplice battuta.



[1] Storia della fotografia, Beaumont Newhall, Ed. Einaudi

Hugo Mulas: OMAGGIO A NIEPCE

http://www.ugomulas.org/index.cgi?action=view&idramo=1090232974&lang=it






1. Omaggio a Niepce 

La fotografia che ho intitolato Omaggio a Niepce 
è il risultato di un riesame del mio lavoro di fotografo che ho fatto alcuni anni fa. 
Ho dedicato a Niepce questo primo lavoro, perché la prima cosa con la quale mi sono trovato a fare i conti è stata proprio la pellicola, la superficie sensibile, l’elemento cardine chiave di tutto il mio mestiere, che è poi il nucleo intorno al quale ha preso corpo l’invenzione di Niepce. 
È una verifica, che è prima di tutto un omaggio, un gesto di gratitudine, un dare a Niepce quello che è di Niepce. 
Per una volta il mezzo, la superficie sensibile, diventa protagonista; non rappresenta altro che se stesso. 
Siamo di fronte a un rullo vergine sviluppato; il pezzettino che è rimasto fuori del caricatore ha preso luce indipendentemente dalla mia volontà, perché è il pezzettino che prende “sempre” luce quando si deve innestare la pellicola sulla macchina: è un fatto fotografico puro. 
Prima ancora che il fotografo faccia qualsiasi operazione, già è avvenuta qualche cosa. Oltre a questo pezzettino che prende luce all’inizio, ho voluto salvare anche il tratto finale, quello che aggancia la pellicola al rocchetto. È un pezzettino che non si usa mai, che non viene mai alla luce, che si butta via, eppure è fondamentale, è il punto dove finisce una sequenza fotografica. 
Mettere l’accento su questo pezzetto vuol dire mettere l’accento sul momento in cui togli dalla macchina la pellicola per portarla in laboratorio. Vuol dire chiudere. Anche questa è una presenza fotografica, perché, essendoci ancora appiccicata della colla che fa corpo, la luce in quel punto non passa. 

Potrei aggiungere che questo omaggio a Niepce rappresenta trentasei occasioni perdute, anzi, trentasei occasioni rifiutate, in un tempo in cui,come scrive Robert Frank riferendosi al fotogiornalismo, l’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia.

Omaggio a Niepce



NIEPCE NICEPHORE_immagine tratta da internet


La prima foto della Storia [1826]. 
Scattata da Joseph Nicéphore Niépce nel 1826 su Bitume di Giudea. 
Durata dell`esposizione: 8 ore.


Dalla prima foto scattata, alle prime del 900, ai reportage di guerra, e fino ai giorni nostri: questo è un piccolo album da sfogliare per attraversare una storia, quella della fotografia, che da quando esiste ne ha tallonato un`altra, quella dell`uomo.

Perchè digitanalogico?

Ci si chiede il destino della fotografia dove stia andando, cosa stesse facendo adesso, come mai il passato della fotografia oggi crei nostalgia, ma si continua a preferire il digitale?

UN PASSO INDIETRO?

Forse questo è un tentativo, non del tutto vano.
Ricerca, sperimentazione, azione e fotografia, confrontandosi digitale e analogico.
Mettendo entrambi i metodi sullo stesso piano.
Proviamo a sviluppare, in laboratorio, la creatività.